Non contenta di aver fatto lo sgambetto alle piattaforme tech e di aver mandato in tilt il settore del lusso, la Cina ha un nuovo obiettivo: controllare l'industria dei liquori. La scorsa settimana l'antitrust cinese ha dichiarato di voler "ridurre le vendite di alcool" e rimpiazzarle con linee di business "più morali". E non è finita. Sì, perché il Partito Comunista non vuole solo cittadini più sobri, ma anche ricchi meno facoltosi. Martedì il presidente cinese, Xi Jinping, si è dichiarato pronto a "regolare i redditi elevati", di fatto scomodando tutti i paperoni del Paese.
In questo caso, è stata la sensazione di déjà vu a far crollare, ancora una volta, i titoli "da bere". Una delle ultime prese di posizioni tanto forti del presidente quanto quella della settimana era avvenuta nel 2012, quando il Partito Comunista aveva dichiarato guerra alla corruzione dei funzionari statali. I provvedimenti avevano colpito in particolar modo il "gift-giving", ovvero la prassi di fare regali costosi agli ufficiali governativi in cambio di favori.
Pare che tradizionalmente il dono preferito dei burocrati corrotti fossero proprio i liquori, seguiti da beni di lusso. E l'abitudine del gift-giving era talmente radicata in Cina che, in seguito alla campagna anticorruzione, i retailer cinesi di alcool restavano con grandi stock di bottiglie invendute, secondo quanto riportava il Wall Street Journal.
La raffica di brutte notizie per il settore dei liquori ha fatto crollare i titoli alcoolici: Kweichow Moutai la scorsa notte ha ceduto oltre il 4%, mentre la rivale Wuliangye Yibin è crollata addirittura del 7%: da martedì 10, il giorno prima delle dichiarazioni di Pechino contro il business della distilleria, le due società hanno perso rispettivamente il 14% e il 17%. Nel comparto del vino, Shanxi Xinghuacun Fen Wine Factory ha stornato il 9,05% e in dieci giorni ha perso circa il 18%.
"Tra le nuove regolamentazione e il rallentamento nella crescita economica, al momento è molto difficile investire in Cina", ha spiegato Hou Anyang, gestore di Frontsea Asset Management a Shenzhen. "A questo punto, anche le azioni più performanti come quelle di chip e veicoli elettrici non riusciranno a reggere la pressione ancora a lungo".
Difatti, il lusso e la distilleria non sono gli unici settori colpiti dalla stretta di Pechino. Stando a quanto riportato da Bloomberg, i media cinesi hanno riacceso i riflettori sulla chirurgia estetica del Paese, denunciando l'aumento di dispute legali e chiedendo più regolamentazioni. Di riflesso, la scorsa notte Ping An Healthcare & Technology, specializzata in tecnologie sanitarie anche per la bellezza, è arrivata a perdere anche il 18%, il peggior calo di sempre nella storia della società (ha chiuso a -14,76%).
Per non parlare poi della lunga e fredda estate dei titoli tech, che da giugno, dopo il caso Didi, hanno perso costantemente terreno in borsa. A Hong Kong, nella seduta appena chiusa, Alibaba ha raggiunto un nuovo minimo storico (157,4 dollari hongkonghesi), mentre l'indice Hang Seng Tech, che traccia l'andamento delle azioni tecnologiche cinesi, è sceso del 4,5%. Sempre tra ieri e oggi, gli investitori istituzionali di tutto il mondo hanno venduto azioni cinesi per un totale di 1 miliardo di dollari.
Il problema della stretta regolatoria, ha spiegato Sean Taylor, chief investment officer di Dws Group a Bloomberg Television, è che non si sa quando finirà e "questo si traduce nel clima di incertezza attuale e nell'aumento dei premi di rischio richiesti dagli investitori per comprare". In precedenza, "ci sono già state riforme che hanno influenzato il mercato, ma in questo caso nessuno conosce i limiti dell’agenda normativa di Pechino". (riproduzione riservata)